Riflessione di S. E. mons. Angelo Becciu

Presentiamo con piacere la riflessione di S. E. Mons. Angelo Becciu, Sostituto della Segreteria di Stato, tenuta in Sardegna il 34 ottobre 2013 in occasione del 6° Incontro regionale dei presbiteri e dei diaconi. Ringraziamo il delegato regionale d. Nino Carta che ci ha fornito il testo.

RELAZIONE DI S. E. MONS. ANGELO BECCIU

Sostituto Segreteria di Stato

24 ottobre 2013

Bonarcado – Sardegna

 

“La vita del Presbiterio diocesano alla luce del testo di Gv , 17,21 “…che tutti siano uno perché il mondo creda

 

Cari amici sacerdoti,

 

          Vi saluto con affetto, contento di vivere questo momento di comunione con voi che, quali membri dell’Unione Apostolica del Clero, vi impegnate, in modo particolare, a favorire l’amicizia e la comunione fra i sacerdoti. Proprio da questo vostro impegno è venuta l’idea del tema da dare al nostro incontro: “Siate uno perchè il mondo creda” (Cfr. Gv 17,21), un tema che ci mette anche in profonda sintonia con l’Anno della Fede che tutta la Chiesa Cattolica sta vivendo.

 

          Mi piace iniziare con un accenno a questa felice ricorrenza – l’Anno della Fede – provvidenzialmente indetto dal Papa emerito Benedetto XVI “per fare memoria del dono prezioso della fede” (Porta Fidei 8).

Da grande maestro della fede, nelle sue numerose e luminose catechesi sull’argomento – durante le Udienze Generali – Papa Benedetto si è impegnato ad illustrare la “forza e la bellezza della fede” (Porta Fidei 4). Ha ricordato fra l’altro – e questo tocca il nostro tema – l’inscindibile unità fra la dimensione personale e comunitaria: “la fede mi viene donata da Dio attraverso una comunità credente che è la Chiesa e mi inserisce così nella moltitudine dei credenti in una comunione che non è solo sociologica, ma radicata nell’eterno amore di Dio, che in Se stesso è comunione del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, è Amore trinitario. La nostra fede è veramente personale, solo se è anche comunitaria: può essere la mia fede, solo se vive e si muove nel «noi» della Chiesa, solo se è la nostra fede, la comune fede dell’unica Chiesa” (Udienza Generale 31 ottobre 2012).

Papa Benedetto è stato ed è un grande ‘dottore della Chiesa’, ma anche un luminoso testimone. Ben si applicano a lui le parole di Paolo VI nell’Esortazione apostolica Evangelii nuntiandi “oggi c’è più bisogno di testimoni che di maestri” (n. 41). Amo vedere nella sua inattesa e sorprendente “rinuncia al ministero petrino” una poderosa testimonianza di fede che è brillata nel firmamento della Chiesa. Con questo singolarissimo “segno”, Papa Benedetto ci ha mostrato cosa è la fede e ci ha fatto vedere i frutti della fede. La fede, infatti, opera, permette a Dio di operare nella nostra storia. L’opera, ossia il frutto della fede di Papa Benedetto, è Papa Francesco.

 

Confortati e direi anzi spronati dall’esempio di Papa Benedetto e ora di Papa Francesco proseguiamo il cammino nell’Anno della Fede, in questo nostro tempo caratterizzato da profondi mutamenti socio-culturali, fra i quali una profonda crisi della fede. Non ce lo nascondiamo: il presente non è un tempo facile per la fede. Non lo è, non lo è mai stato, né mai lo sarà. Sempre, come già Agostino insegnava, la Chiesa “prosegue il suo pellegrinaggio fra le persecuzioni del mondo e le consolazioni di Dio” (De civ. Dei, XVIII, 51, 2: PL 41, 614).

 

Quali sono, per usare le parole del Vescovo di Ippona, le “persecuzioni” odierne? E’ vero, in non pochi angoli della terra, i cristiani sperimentano avversità e anche effettive persecuzioni nella pratica della fede. Oggi, tuttavia, più che combattuta la fede e la Chiesa che l’annuncia sono ignorate. Non abbiamo più a che fare con l’ateismo militante, “scientifico” marxista, di 50 anni fa, ma con un ateismo pratico, indotto dal materialismo pratico e dalla cultura consumista dominante. Infatti, nella società secolarizzata di oggi, per molti aspetti post-cristiana, prevale una cultura senza Dio. Il mondo moderno, dopo aver rigettato ogni legame tra cultura e fede (tipico del cosiddetto «regime di cristianità»), ha finito col condurre la società contemporanea verso una totale secolarizzazione della vita e del costume. Così noi oggi respiriamo una cultura senza Dio, materalistica e consumistica, che apre la via a deviazioni morali e a forme di violenza non dissimili (se non peggiori) da quelle del paganesimo. La religione è considerata (o tollerata) tutt’al più come una mera questione soggettiva, ma senza rilevanza pubblica.

 

          Ecco, precisamente in questo contesto, noi preghiamo e lavoriamo con fiducioso ottimismo, pur senza sottovalutare i problemi. Come il Beato Giovanni Paolo II ha ricordato alla Chiesa in procinto di varcare la soglia del III Millennio: “Non ci seduce certo la prospettiva ingenua che, di fronte alle grandi sfide del nostro tempo, possa esserci una formula magica. No, non una formula ci salverà, ma una Persona, e la certezza che essa ci infonde: Io sono con voi!” (Novo millennio ineunte 29).

 

          Lo sappiamo, Cristo Gesù, Redentore dell’uomo, è con noi se noi siamo con lui, e se siamo uniti fra di noi: “Dove due o più sono uniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro” (Mt 18,20). Questa unità ci consente di mettere in pratica il “mandato missionario” contenuto nel Vangelo di Giovanni ed espresso nella preghiera di Gesù al Padre: “Siano in noi una cosa sola, perché il mondo creda che tu mi hai mandato” (17,21); “Siano perfetti nell’unità, affinché il mondo riconosca che tu mi hai mandato” (17,23).

 

          Oggi più che mai, si richiedono non tanto singole persone carismatiche, ma una comunità di persone unite nel nome di Gesù, che custodiscono la sua presenza nell’amore reciproco. La prima esperienza dello Spirito, a Pentecoste, fu infatti esperienza di un’intera comunità. Sarà solo il Risorto presente in mezzo a noi a comunicarci il suo Spirito.

 

Il soggetto dell’evangelizzazione – la comunità – si articola concretamente in una molteplicità di comunità: la famiglia, la parrocchia, la comunità religiosa, la comunità dei missionari, la comunità diocesana, le comunità ecclesiali di base, i gruppi, le associazioni, i movimenti… Ognuna di queste comunità, come l’intera Chiesa, se trova in Cristo il suo centro e vive la carità trinitaria e fraterna, diventa segno e sacramento di Cristo, della salvezza, dell’unità: è missionaria e ministeriale.

Potremmo approfondire la caratteristica di ognuna di queste comunità in ordine al suo ambito e alla sua modalità di evangelizzazione. Il discorso ci porterebbe lontano. Mi limito a sottolineare due cose: primo, che questi luoghi di comunione sono non solo il punto di partenza della testimonianza e dell’annuncio, ma anche il concreto punto di approdo; secondo, che essi, pur nella varietà delle esperienze, sono chiamati ad una autentica dinamica di unità.

 

1) Quando una persona è “convertita” dove la si porta? Se la conversione non è un fatto esclusivamente personale, ma l’inserimento in una comunione di vita, dove trovare il luogo concreto di inserimento, nel quale si possa sperimentare la novità di vita cristiana? Ecco l’urgenza di una “casa” dove accogliere le persone, dove permettere di camminare insieme come discepoli attorno al loro Maestro, dove crescere nella conoscenza del mistero e sperimentare l’autentico amore cristiano. Se mancano questi luoghi concreti dove si possa vivere la comunione ricevuta si rischia di deludere le persone, di perderle, o di non consentire loro una piena crescita nella vita cristiana. Si comprende, allora, tutta l’attualità e l’urgenza del “mandato pastorale” consegnato da Giovanni Paolo II alla Chiesa universale sulla soglia del terzo millennio: “Fare della Chiesa la casa e la scuola della comunione: ecco la grande sfida che ci sta davanti nel millennio che inizia, se vogliamo essere fedeli al disegno di Dio e rispondere anche alle attese profonde del mondo” (Novo millennio ineunte, 43).

 

2)Tra queste differenti comunità, che esprimono l’unica comunione, si esige inoltre, per una piena credibilità evangelica una sincera testimonianza di unità.  Il rapporto di comunione tra tutte le vocazioni ecclesiali diventa così una ulteriore caratteristica dell’evangelizzazione. Famiglie, associazioni, istituti religiosi, gruppi, parrocchie, laici, sacerdoti, religiosi e religiose… tutti siamo chiamati ad una profonda unità, per mostrare la bellezza dell’unico popolo di Dio, dell’unica grande famiglia dei figli e delle figlie di Dio, e per offrire ad ogni nuovo credente un ampio ambito di scelta per il proprio impegno cristiano.

 

Le sfide del mondo di oggi chiedono un lavoro unitario tra tutte le componenti ecclesiali. Unità non significa livellamento. Ogni vocazione dovrà lavorare in linea con il proprio carisma, dando il suo apporto specifico. Ma davanti a tutti dobbiamo mostrarci come un popolo adunato, che rispecchia e vive l’unità trinitaria.

 

Ma poiché sto parlando a fratelli sacerdoti, chiamati in modo speciale ad essere messaggeri di Cristo e del Vangelo, vorrei continuare e concludere questa mia conversazione considerando con voi, più specificamente, la ricaduta o le conseguenze che il mandato giovanneo “siate uno perché il mondo creda” ha sul nostro ministero sacerdotale.

 

Mi ispiro, a questo riguardo, alle “Dieci tesi sullo stile di vita sacerdotale” formulate dal sacerdote e teologo tedesco, poi Vescovo di Aachen, S.E. Mons. Klaus Hemmerle  (cfr Prêtres: vivre plutôt que survivre – 10 priorités pour l’aujourd’hui – Wilhelm Breuning, Klaus Hemmerle, Nouvelle Cité 1994), evidenziando tre di queste tesi:

 

Prima tesi: E’ più importante ciò che Cristo fa in me di quel che io stesso faccio.

 

          La prima unità da vivere è con noi stessi, con ciò che siamo e siamo chiamati ad essere. Il sacerdote, lo sappiamo, è colui che agisce  “in persona Christi” (cfr. Ecclesia de Eucaristia, 29). Siamo dunque chiamati all’unità, alla comunione di vita con Cristo, alla identificazione con lui: “Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me” (Gal 2,20).

 

          Papa Francesco esprime questa chiamata alla comunione con Cristo con una sua formula incisiva: “pregare è il primo lavoro di un apostolo, e, secondo, annunciare il Vangelo” (Udienza Generale del 16 ottobre 2013). Dunque prima essere uno con Cristo (pregare è appunto entrare in Dio, stare con lui), poi evangelizzare.  E in quanto all’evangelizzazione, che apre le porte alla fede, di nuovo Papa Francesco è esplicito e diretto, oltre che testimone esemplare. Ci dice: “La prima cosa è ascoltare la Parola di Dio. La Chiesa è questo: la comunità che ascolta con fede e con amore il Signore che parla… Penso che tutti possiamo migliorare un po’ su questo aspetto: diventare tutti più ascoltatori della Parola di Dio, per essere meno ricchi di nostre parole e più ricchi delle sue Parole… Penso al sacerdote, che ha il compito di predicare. Come può predicare se prima non ha aperto il suo cuore, non ha ascoltato, nel silenzio, la Parola di Dio?” (Incontro con il clero, persone di vita consacrata e membri di Consigli pastorali, Assisi 4 ottobre 2013).

 

          E’, dunque, più importante quel che Cristo fa in me. E che cosa Cristo Gesù fa e dice di se stesso?: “Il Figlio dell’uomo non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la vita in riscatto per molti” (Mt, 20 28).

          Essere allora un sacerdote che serve, un servo per amore. E qui permettetemi di ricordare una delle forti esortazioni di Papa Benedetto XVI in uno dei suoi regolari incontri col Clero di Roma: “Servire”, questo deve essere anche per noi determinante: siamo servitori. E servire vuol dire non fare quanto io mi propongo, quanto sarebbe per me la cosa più simpatica; servire vuol dire lasciarmi imporre il peso del Signore, il giogo del Signore; servire vuol dire non andare secondo le mie preferenze, le mie priorità, ma lasciarmi realmente “prendere in servizio” per l’altro… non scegliamo noi cosa fare, ma siamo servitori di Cristo nella Chiesa e lavoriamo come la Chiesa ci dice, dove la Chiesa ci chiama… servitori che non fanno la propria volontà, ma la volontà del Signore  (10 marzo 2011).

 

Cosa dobbiamo fare? Quella conversione profonda a cui ci chiama San Paolo: “Tutto è vostro… però voi siete di Cristo e Cristo è di Dio” (1Cor 3,21.23). Dobbiamo essere veramente “di Cristo, di Dio”. “Sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma è Cristo che vive in me. Questa vita nella carne, io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me” (Gal 2,20).

 

Seconda tesi: – E’ più importante che io viva l’unità del Presbiterio, piuttosto che realizzi da solo i miei impegni.

 

          Siamo sacerdoti “insieme”. Nessuno di noi è chiamato a vivere il sacerdozio in maniera autocefala: siamo con-presbiteri. La Pastores dabo vobis, ricordando l’insegnamento di Giovanni Paolo II, afferma: “Il ministero ordinato ha una radicale ‘forma comunitaria’ e può essere assolto solo come ‘ un’opera collettiva’» (n.17).

 

          L’unità del presbiterio è sempre, inscindibilmente, comunione col Vescovo e con i confratelli sacerdoti:

 

– Centro della comunione sacerdotale, del Presbiterio, è il Vescovo: “Il ministero dei presbiteri è innanzi tutto comunione e collaborazione responsabile e necessaria al ministero del Vescovo, nella sollecitudine per la Chiesa universale e per le singole Chiese particolari, a servizio delle quali essi costituiscono con il Vescovo un unico presbiterio” (Pastores dabo Vobis 17).

Per questo “I presbiteri sono chiamati in primo luogo a vivere una relazione filiale e fraterna con il proprio Vescovo, del quale sono necessari collaboratori e consiglieri nel ministero (PO, n. 7). Un rapporto cordiale e schietto con il Vescovo non è dettato solamente da motivi di affinità psicologica, di opportunità pastorale o di strategia operativa; esso si radica nella configurazione sacramentale del ministero. La conseguenza è chiara: la “communio” con il Vescovo, successore degli Apostoli, è “conditio sine qua non” e sorgente vitale per l’autenticità dell'”esse” e dell””operari” del Presbiterio; per cui, senza questa unità, non c’è nemmeno, in senso pieno, il Presbiterio. In assenza di tale comunione – non illudiamoci – saremmo come rami staccati dall’albero: il destino è quello di diventare secchi, sterili.

 

– In secondo luogo: destinatari della nostra comunione sono gli altri fratelli presbiteri. Essi “sono uniti tra loro da intima fraternità sacramentale” (Presbiterorum Ordinis n. 8), sono chiamati a intessere relazioni fraterne, effettive e affettive, con gli altri presbiteri. E’ l’insegnamento della Lumen Gentium: «In forza della comune sacra ordinazione e della missione, tutti i presbiteri sono legati fra loro da intima fraternità, che deve manifestarsi spontaneamente e volentieri nel reciproco aiuto spirituale e materiale, pastorale e personale, nelle riunioni e nella comunione di vita, di lavoro e di carità» (n.28). Abbondano in questo senso anche i nn. 7-9 del Presbiterorum Ordinis.

 

Dunque: progettare insieme, confrontarsi insieme, correggersi insieme, pregare insieme, servire insieme, dedicarsi insieme a servire i più poveri, nello spirito della solidarietà evangelica. “Una parola chiave di cui non dobbiamo avere paura è «solidarietà», saper mettere, cioè, a disposizione di Dio quello che abbiamo, le nostre umili capacità, perché solo nella condivisione, nel dono, la nostra vita sarà feconda, porterà frutto”. (Papa Francesco, omelia nella Solennità del Corpus Domini, 30 maggio 2013).

 

          Ricordiamolo: l’amicizia sacerdotale, soprannaturale ed umana, rappresenta un potente antidoto contro il senso di solitudine e una straordinaria opportunità per realizzare la propria personalità sotto il profilo spirituale, psicologico e pastorale. Merita perciò che ad essa vengano dedicati “spazi” sufficienti, che vanno ricavati dalla nostra affollata agenda pastorale. Ciò che è investito in comunione non è sottratto all’apostolato: anzi, lo rende più intenso ed incisivo. Un prete sereno e allegro convince di più di uno troppo affannato e triste.

 

Terza tesi: E’ più importante che io collabori spiritualmente con gli altri, invece di voler fare tutto da solo.

 

          Nell’unico corpo di Cristo che è la Chiesa c’è una molteplicità di carismi. Il sacerdote non è un “tuttofare”; al contrario è colui che col suo servizio mette in rilievo e da spazio ai carismi, arricchendo così la Chiesa.

 

          Per questo, nella sua “Lettera per l’indizione dell’Anno Sacerdotale” e riferendosi all’esempio di San Giovanni Maria Vianney, il Papa Benedetto XVI esortava ad “evidenziare gli spazi di collaborazione che è doveroso estendere sempre più ai fedeli laici, coi quali i presbiteri formano l’unico popolo sacerdotale e in mezzo ai quali, in virtù del sacerdozio ministeriale, si trovano “per condurre tutti all’unità della carità, ‘amandosi l’un l’altro con la carità fraterna, prevenendosi a vicenda nella deferenza’ (Rm 12,10).

In questo contesto, è bello ricordare il caloroso invito che il Concilio Vaticano II, proprio nel Decreto sul ministero e vita dei Presbiteri, rivolge ai sacerdoti incoraggiandoli a“riconoscere e promuovere sinceramente la dignità dei laici, nonché il loro ruolo specifico nell’ambito della missione della Chiesa… Siano pronti ad ascoltare il parere dei laici, considerando con interesse fraterno le loro aspirazioni e giovandosi della loro esperienza e competenza nei diversi campi dell’attività umana, in modo da poter insieme a loro riconoscere i segni dei tempi” (PO, 9).

 

Mi piace ricordare anche un‘altra esortazione del Papa Benedetto XVI, in un incontro con i Parroci di Roma: “E’ necessario… migliorare l’impostazione pastorale, così che, nel rispetto delle vocazioni e dei ruoli dei consacrati e dei laici, si promuova gradualmente la corresponsabilità dell’insieme di tutti i membri del Popolo di Dio. Ciò esige un cambiamento di mentalità riguardante particolarmente i laici, passando dal considerarli «collaboratori» del clero a riconoscerli realmente «corresponsabili» dell’essere e dell’agire della Chiesa, favorendo il consolidarsi di un laicato maturo ed impegnato” ( 26 maggio 2009).

 

Il che vuol dire: preti “per” i laici e “con” i laici, affinché la Chiesa, nella molteplicità delle sue vocazioni e funzioni, sia davvero “un cuor solo e un’anima sola” (cfr, At 4,32) e diventi lievito evangelico nella storia di un mondo che cambia. Infatti – come voi ben sapete – nello svolgimento del ministero pastorale, ogni sacerdote è chiamato ad essere frater fratribus fraterno corde.

 

La Chiesa, il presbiterio, la comunità, sono lo spazio dove formarsi alla comunione reciproca, per poi uscire dal “tempio” verso le “periferie”, urbane e geografiche, ma anche spirituali ed esistenziali, dove vive la gente. È qui che il sacerdote deve spargere l’olio ricevuto nella consacrazione presbiterale (cfr Papa Francesco nell’omelia della sua prima Messa Crismale, 28 marzo 2013). Una comunità ecclesiale meno auto-referenziale e più decentrata costituisce per Papa Francesco la visione e la missione della Chiesa.

 

 

Concludo: non si può essere uno in Cristo e uniti fra di noi senza impegnarsi in un costante rinnovamento della vita, tanto a livello personale quanto nello svolgimento del nostro ministero. E’ questo un esercizio imprescindibile, poiché – secondo la lezione di san Gregorio Nazianzeno – bisogna «prima purificarsi e poi purificare, prima lasciarsi istruire dalla sapienza e poi istruire, prima diventare luce e poi illuminare, prima avvicinarsi a Dio e poi condurvi gli altri, prima essere santi e poi santificare» (Oratio II, n. 71: PG 35, 479).

 

All’insegnamento del Nazianzeno mi permetterei di aggiungere una semplice parola: “insieme”. Purificarsi “insieme”, istruirsi “insieme”, santificarsi “insieme”. Dobbiamo infatti “essere insieme”, ossia legati dall’amore reciproco, per poter essere “uno affinché il mondo creda”.

nale dei presbiteri e dei diaconi. Ringraziamo il delegato regionale d. Nino Carta che ci ha fornito il testo.