UMBRIA – CENACOLO REGIONALE

Presbitèri diocesani sotto osservazione

di Vittorio Peri

Partecipanti al Cenacolo regionale

 

Partecipanti al Cenacolo regionale
Partecipanti al Cenacolo regionale
Partecipanti al Cenacolo regionale

 

Il cenacolo sul “presbiterio diocesano”, che si è svolto la mattina del 14 marzo al Seminario regionale su iniziativa del rettore d. Carlo Franzoni e dell’Unione apostolica regionale, ha ottenuto un alto gradimento da parte dei 21 partecipanti: una quindicina di preti di diverse diocesi, alcuni diaconi per lo più del medesimo Seminario e il notissimo vescovo emerito Lorenzo Chiarinelli venuto appositamente – merita sottolinearlo – da Rieti.

Chi ha partecipato a qualcuno dei cenacoli organizzati dall’Uac sa bene che non si va per ascoltare un relatore e porre al termine qualche domanda esplicativa. Questo è il modo tradizionale che si attua di solito nei consueti incontri mensili del clero. Un cenacolo è invece un incontro in cui tutti sono invitati a esprimere in piena libertà il proprio pensiero sul tema prescelto  e brevemente presentato all’inizio dalla guida.

Il cenacolo del 14 scorso ha riguardato dunque il presbiterio diocesano: un argomento sicuramente sviluppato in modo adeguato nei documenti della Chiesa, ma quasi del tutto ignorato nella quotidiana vita dei preti (sono essi, infatti, i membri del presbiterio, anche se i diaconi non devono sentirsi ad esso estranei). Come dire: esiste, ma soprattutto nelle solenni carte.

Chi scrive questa nota, in una prima introduzione ha ricordato alcune “perle” teologico-pastorali del magistero in materia. Ad esempio, che i presbiteri costituiscono con il vescovo un unico presbiterio (LG, 28), che di esso fanno parte anche i preti religiosi residenti nella diocesi” (CD, 74); che tutti i preti sono tra loro uniti da intima fraternità sacramentale (PO, 8); che il ministero ordinato ha una radicale forma comunitaria (PdV, 17) e, infine,  che il presbiterio diocesano è una vera famiglia fondata sul sacramento dell’Ordine (PdV, 74).

In una seconda introduzione è stato ricordato ciò che avveniva nei primi tre secoli della Chiesa, e cioè che preti e  diaconi agivano in stretta comunione tra loro e con il vescovo. A partire dal IV secolo però, quando il cristianesimo con l’editto di Teodosio (380) divenne religione ufficiale dell’impero, emersero due modelli di vita ecclesiale e di rapporti tra ministri ordinati.  Nelle città  questi operavano come sempre avevano fatto; nelle periferie rurali, invece, agivano in modo sempre più individualistico: il rapporto con il vescovo e con i suoi preti divenne gradualmente evanescente, l’orizzonte della “diocesanità” sempre più lontano,  lo stesso termine – presbiterio – subì uno stupefacente cambio di fisionomia: da realtà teologico – spirituale a elemento topografico, cioè la parte della chiesa riservata al clero e delimitata di solito da una balaustra.

partecipanti al Cenacolo regionale

Le opinioni emerse dal dialogo

Dopo le due introduzioni, lo scambio di opinioni: libero e centrato, almeno quasi sempre, sul tema. Non è certo facile riassumere i contenuti dei venti contributi esperienziali (c’è stata una sola libera astensione) presentati senza interruzione dalle 9.30 alle 12.30.

Si può tuttavia affermare che la fisionomia generale dei presbitèri diocesani, nelle otto Chiese particolari dell’Umbria, insieme ad alcuni aspetti positivi, presenta un ampio ventaglio di situazioni problematiche, quali ad esempio:  difficoltà ad assicurare una dignitosa vita ai molti preti anziani che vivono da soli o malati;  solitudine psicologica anche dei giovani preti; individualismo pastorale (“qualcuno vive in Seminario insieme ad altri per imparare a … vivere da solo”, è stato detto con umorismo); carenze di natura ecclesiologica che portano ad operare a nome proprio; esperienze di comunione affettiva più che effettiva; penuria di schiette amicizie e di relazioni “calde” tra preti (“poiché la persona è relazione, senza relazione non c’è persona”, ha detto qualcuno); il presbiterio è una specie di macchina il cui volante deve restare saldo nelle mani del vescovo; situazioni difficili di sacerdoti (malattie, ricoveri ospedalieri, ecc. ) che restano ignorate dai fratelli (si è chiesto di bandire la vetusta parola “confratelli”) per mancanza di adeguate informazioni da parte delle rispettive Curie.

E’ stato anche rilevato che la figura del presbitero è ancora troppo spesso presentata al singolare invece che al plurale; come un “io” solitario invece che un “noi” collettivo, nonostante l’insistenza del decreto conciliare Presbiterorum ordinis che,  già nello stesso incipit, orienta verso la forma comunitaria del ministero. La carenza è stata perfino rilevata, da taluno, nel recente sussidio della Cei  Lievito di fraternità (2017) dove prevale il singolare e solo qua e là si parla del presbiterio in genere (salvo sviste, una sola volta del presbiterio diocesano).

Uno dei compiti primari del vescovo, è stato anche detto, è quello di creare e far crescere il  presbiterio di cui è capo e guida. Se un prete staccato dal presbiterio è come un arto mutilato,  si dovrebbe concludere che un presbiterio privo della comunione anche di un solo membro è come un corpo mutilato. Chi, di fronte a questa situazione, può dormire sonni tranquilli?

E se questa è una non rara realtà, utilizzando una forte immagine  di papa Francesco posiamo concludere che tante Chiese diocesane appaiono come “ospedali da campo” nei quali non può non essere allestito un reparto per la cura del loro presbiterio.  Non certo per moltiplicare ingombranti servizi e iniziative, ma per realizzare “infrastrutture” schiettamente spirituali.

Vittorio Peri