L’omelia

COME FARE L’OMELIA

 

Bravo, Papa Francesco!

 

“Via queste omelie interminabili, noiose, delle quali non si capisce niente”.

 Ecco la mia risonanza all’invito di papa Francesco rivolto al clero il 4 ottobre scorso, nella cattedrale di Assisi.

 

Hai ragione, Papa Francesco.

 

Dobbiamo tutti, sempre più, impegnarci a parlare direttamente ai fedeli, senza tanti foglietti tra le mani, con parole semplici e con riferimenti anche all’attualità.

 Non è sempre facile, soprattutto quando si è di fronte ad anziani, adulti e fanciulli del Catechismo; non dobbiamo, però, arrenderci.

 Un piccolo sforzo e tutto diventa, con la grazia del Signore, più facile.

 Potremo, infatti, far tesoro di tanti studi fatti in preziosi anni di preparazione e di molteplici esperienze pastorali.

 Non comportandoci, però, da “professori”, ma da innamorati della Parola di Dio, fonte della vita spirituale di tutti, preti, religiosi e laici.

                                                                                                                                                                                                                 don Sergio Andreoli, Foligno

 

 

IL NO E IL SI DELL’OMELIA

 

                          di Vittorio Peri

 

Sferzanti, umoristiche e perfino caustiche, le battute sull’omelia (omilein, conversare familiar­mente, termine che compare per la prima volta in At 20,11 con questo significato), sono ormai così numerose da evidenziare un’emergenza pastorale.
Basterebbe ricordare quella dell’allora card. Rat­zinger: “Il miracolo della Chiesa è di sopravvivere ogni domenica a milioni di pessime omelie”.

 

Ma ce ne sono altre, ugualmente pungenti:

  • “Nonostante trentamila prediche fatte ogni do­menica, in Francia c’è ancora la fede” (Yves Congar);
  • “nella messa, la Chiesa ha posto il Credo dopo l’omelia per invitarci a credere nonostante ciò che abbiamo ascoltato” (card. Tomas Spidlik);
  • “non c’è nessun altro luogo in cui i volti sono così inespressivi come in chiesa, durante le prediche” (Francois Mauriac);
  • “la predica è utile perché mette a dura prova la fede di chi ascolta” (Julien Green);
  • “l’abate pensava che l’unico modo di convertire il mondo fosse quello di stare zitti finché le vecchie parole sacre non avessero avuto il tempo di riac­quistare un suono nuovo e che, intanto, la migliore predica che i preti potessero fare era quella di non predicare” (Bruce Marshall);
  • “l’omelia è il tormento dei fedeli” (Carlo Bo); favorisce il sonno e non danneggia la salute; è il momento in cui più spesso si guarda l’orologio. E si potrebbe continuare a lungo.

Al di là tuttavia dei frizzi più o meno graffianti, l’omelia è senza dubbio, assieme alla frettolosa proclamazione delle letture bibliche, il “tallone d’Achille” delle nostre liturgie.
Eppure è in essa che, secondo i vescovi italiani, “si compendia, ormai, la parte maggiore dell’eser­cizio del ministero della parola”. Per moltissimi cristiani, anzi, è l’unico punto d’incontro con la Scrittura.
La sua importanza nella vita della Chiesa è dunque indiscutibile. Ne sono conferma le quasi centomila omelie domenicali e festive che ogni settimana, e per almeno 50 settimane all’anno, vengono ascoltate da sette/otto di milioni di fedeli. Altrettanto indiscutibile, però, è la difficoltà di presentarla correttamente perché, come ha scritto il card. Martini, “è un modo sui generis difficile, forse il più difficile, con cui la Chiesa opera con la Scrittura”. Se l’omelia non funziona, la luce della Parola non arriva, e la casa resta al buio.

E poiché già nel lontano 1971 i vescovi affer­mavano che l’omelia “non risponde adeguatamente al suo scopo”, non sarà inutile farne oggetto di una nuova riflessione, sostenuti dalla fiducia tra­smessa dall’arguto aforisma di Erasmo da Rotterdam per il quale “se gli elefanti imparano a ballare e i leoni a giocare, i predicatori possono ben imparare a predicare”.
E’ quello che s’intende fare con queste paginette strutturate secondo un tradizionale schema gior­nalistico: cosa, chi, come, dove, quando, perché. Il loro unico scopo è far sì che l’omelia diventi davvero ciò che è: un efficace canale di evangeliz­zazione.
Se è vero che la comunicazione è per la società il terreno su cui si gioca ogni possibilità d’incontro tra gli uomini, per la Chiesa non può esserlo di meno.
E’ dunque inevitabile ripensare senza timori le varie forme della comunicazione ecclesiale. E ciò vale soprattutto per l’omelia che, tra di esse, occupa un posto “eminente”.

 

Cosa non è e non deve essere

L’omelia non è quello che di solito… siamo co­stretti a sentire. Ma poiché anche attraverso le antitesi può chiarirsi una tesi, ecco una serie di “opposti” per una corretta riflessione sull’omelia. Potrebbero dirsi la pars destruens di questo primo capitolo. Una parte difficile per noi che, come scriveva il liturgista Tommaso Federici, “siamo abituati non all’omelia, ma a discorsi con contorno di messa”.

Non è una dissertazione di ordine socio­politico o culturale (omelia sociologica).
Chi parla deve certo avere, come raccomandava Karl Barth, “la Bibbia in mano e il giornale in tasca” (e magari l’orologio davanti agli occhi, potremmo aggiungere); ma i tempi e i luoghi per l’educazione alla vita so­cio-politica sono altri.

Non è un manifesto per pubblicizzare soluzioni politico-amministrative (omelia-comizio).
“Nel­l’edificare la comunità cristiana i presbiteri non si mettono mai al servizio di un’ideologia o umana fazione”. È il vissuto che va illuminato da ciò che si celebra, non viceversa. “Non è tollerabile -scriveva Basilio di Cesarea – che qualcuno si faccia più sapiente della Scrittura introducendovi arbitrarie opinioni personali”. Il predicatore deve mostrare la verità della Parola, non prestare la sua verità alla Parola.

Non è un discorso in difesa di persone o istitu­zioni ecclesiali (omelia apologetica) sia perché con la testimonianza dei battezzati, più che attraverso le arringhe, si tutela il buon nome della comunità cristiana sia perché, come scriveva Ovidio, “una causa non buona diventa peggiore quando si vuole difenderla”.

Non è la rievocazione di anniversari, prese di possesso ecc. (omelia rievocativa) ove (sia detto tra parentesi) la quantità di denaro impiegato per commemorare cose accadute è tale che, scriveva Ennio Flaiano, “se fosse stato impiegato a suo tempo per le stesse cose, avrebbe forse mutato il corso della storia.

Non è un’esortazione moralistica (omelia-fer­vorino) con i soliti luoghi comuni del galateo morale infarciti di obblighi, divieti e generiche ricette dettate dal buon senso.
“Veritas non ex homi­nibus ratione, sed ex Verbo Dei”, scriveva s. Ilario di Poitiers.

Non è l’elogio di qualche personaggio illustre (omelia-panegirico) con le inevitabili bugie di cir­costanza così frequenti nelle celebrazioni esequiali cui ben s’addice l’ironia di un letterato francese: “Niente è più veritiero di un discorso funebre: dice precisamente quello che il morto avrebbe do­vuto essere”.

Non è l’esaltazione di un santo (omelia apolo­getica) la cui memoria, per quanto importante, non può che rimandare alla persona e al vangelo di Cristo.

Non è la scontata filippica contro gli assenti o i mali del tempo (omelia-tuoni e fulmini) che infa­stidisce i presenti senza portare alcun vantaggio agli assenti.

Non è un modo per tediare i malcapitati ascol­tatori con generiche divagazioni (omelia-talk show) che, potendo andare bene per tutto, di solito non servono a niente.
“Si devono evitare omelie gene­riche ed astratte, che occultino la semplicità della parola di Dio, come pure inutili divagazioni che rischiano di attirare l’attenzione sul predicatore piuttosto che al cuore del messaggio evangelico.Deve risultare chiaro ai fedeli che ciò che sta a cuore al predicatore è mostrare Cristo, che deve re­stare il entro di ogni omelia”. “Non permettere che sulle nostre labbra la parola di Dio s’inquini con i detriti delle ideologie”, scriveva il vescovo Tonino Bello in una preghiera al vescovo martire Oscar Romero. “Il compito principale che Dio ha assegnato alla mia vita è questo: che ogni mia parola e ogni mio sentimento dicano di lui”, scriveva Tommaso D’Aquino. Il testo non può di­ventare un palestra per verbosi svolazzi.

Non è un pretesto per esibire erudite elucu­brazioni (omelia auto-celebrativa), ove, più che il messaggio, è esaltato il messaggero. Non è un sim­posio per mettere in vetrina un sapere senza sapore. “Il mio scopo è insegnare – scriveva s. Giovanni Crisostomo -, non ostentare eloquenza”. Un erudito può soggiogare l’uditorio, ma la parola di Dio vuole un cuore che parli al cuore.

Non è un’arringa per presentare difese o recri­minazioni personali (omelia- auto difensiva).

Non è una esposizione storico-critica del testo biblico (omelia-esegetica) appena proclamato. Anche se è necessario – e lo è moltissimo! – capire la Scrittura per poterla vivere, l’omelia non può tra­sformarsi in una lezione di esegesi biblica (come questa, a sua volta, non può mai diventare un’ome­lia). Infatti, “la spiegazione dei testi biblici, durante l’omelia, non può entrare in molti dettagli”, che sono invece necessari in una esposizione dottrinale. Lo scopo dell’omelia non è di spiegare, ma di at­tualizzare la Scrittura.

Non è la rassegna o la sintesi delle singole letture (omelia-istruzione), con il rischio di fare tre distinte omelie, seppure è quanto mai necessario evidenziare la loro unità tematica, l’unità dei due Testamenti, la continuità della storia della salvezza che si realizza in modo definitivo nella persona di Gesù. Poiché la prima lettura è scelta in funzione della terza (il Vangelo), sarà il punto d’incontro tra le due il tema fondamentale dell’omelia.

Non è la illustrazione sistematica delle verità di fede o di qualche aspetto del rito che si sta cele­brando (omelia-catechesi). L’omelia espone i misteri della fede e le norme della vita cristiana “seguendo il corso dell’anno liturgico” e in base al testo sacro appena proclamato; non invece attraverso predi­sposti itinerari catechetici che hanno piena legittimità in altre sedi, né in forza di sollecitazioni pastorali o motivi di natura contingente.

Non è l’occasione per dialogare con l’assemblea (omelia dialogica). I fedeli sono infatti invitati a non intervenire con osservazioni e dialoghi, a meno che l’omelia sia destinata ai bambini o ai ragazzi, precisa il Lezionario della messa per i fanciulli. Essa “fonda il dialogo divino tra lo Sposo e la Sposa, nello Spirito santo”, scriveva Tommaso Fe­derici. Il dialogo tra le persone ha tempi e luoghi diversi, come potrebbero essere quelli della prepa­razione con il gruppo liturgico.

Non è, infine, l’elenco degli avvisi sacri o delle informazioni sulle attività parrocchiali (omelia-ma­nifesto). “Dall’omelia si devono tenere distinti gli eventuali brevi avvisi al popolo; il loro posto è al termine dell’orazione dopo la comunione” e – è bene ricordarlo sempre – al di fuori dell’ambone.

 

Ma cos’è, allora?

E’ una parte della stessa azione liturgica, insegna Sacrosanctum Concilium (n. 52) e, in quanto tale:

  • è un’azione del Christus totus: di Cristo e della Chiesa, del capo e delle membra affinché la fede dell’assemblea, confessata corde et ore, sia testimo­niata vita et moribus;
  • è un “luogo” spirituale che favorisce l’incontro personale con Gesù che si fa presente nella fractio Verbi e nella fractio Panis;
  • è il momento più alto della mistagogia (dal greco mistagogia: iniziazione ai misteri) perché “in essa vengono presentati ex textu sacro i misteri della fede e le norme della vita cristiana” (SC, 32).

L’omelia ha pertanto una natura sacramentale che per nessun motivo può essere compromessa e, nei confronti di qualsiasi altra forma di comu­nicazione, ecclesiale, ha una originalità assoluta: quella di trasmettere la ricchezza spirituale delle letture cui necessariamente deve riferirsi. Nella li­turgia rito e parola sono intimamente connessi”.

Le letture sono come “veicoli” con i quali la vo­lontà salvifica di Dio è fatta conoscere e donata, annunciata e resa presente. “La stessa celebrazione liturgica, che poggia fondamentalmente sulla parola di Dio, e della parola di Dio tutta s’innerva, diventa un nuovo evento e arricchisce la parola stessa di un’interpretazione nuova e di una insospettata ef­ficacia”, si legge al n. 3 di Ordo lectionum missae.

“Nella liturgia – scrive il vescovo Mario Russotto – la parola scritta diventa evento. Non è solo rac­conto, ma storia; non solo dice, ma crea; non solo ricorda, ma attua”. I testi proclamati sono sacra­mentali, prima ancora che normativi; sotto l’influsso dello Spirito creano ciò che raccontano.
Dio stesso dichiara che la parola uscita dalla sua bocca non ritorna mai a lui “senza effetto”, senza aver operato ciò che lui desidera (cf Is 55,11). E’ una parola che plasma in modo nuovo la vita. Performativa, dunque, più che informativa.

Le letture bibliche realizzano una presenza di Cristo non meno vera di quella eucaristica ed è a lui che l’omelia indirizza la mente e il cuore dei fedeli. “Tutta la Scrittura è un unico libro, e questo libro è Gesù” (Ugo di San Vittore). “Chiudete le orecchie quando qualcuno vi parla d’altro che di Gesù Cristo”, scriveva Ignazio di Antiochia. E se ciò nell’omelia dovesse accadere, bisognerebbe in­vitare chi parla a tacere. “La parola del Signore contenuta nelle Scritture si faccia evento, risuoni nella storia, susciti la trasformazione del cuore”, hanno scritto i vescovi italiani in Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia (n. 32).
In breve, ha il compito di trasformare l’ascolto in un personale incontro con il Cristo, risorto e vi­vente.

I verbi delle letture bibliche potrebbero allora essere messi al presente. Perché le persone cui Gesù duemila anni fa parlava sono quelle dell’as­semblea che ora celebra; le mani con cui toccava i malati continuano a sanare, le parole che pronun­ciava sono le stesse che l’assemblea ascolta.

Le Scritture si compiono nel rito che qui e ora si celebra. Già il Talmud, nel commento all’Esodo, scriveva che “ognuno, di generazione in generazione, deve sentirsi personalmente uscito dall’Egitto”. Non è fantasia ma realtà, come insegna lo stesso Concilio: “Cristo è presente nella sua parola giacché è lui che parla quando nella Chiesa si legge la sacra Scrittura” (SC, 7).

Nella liturgia armena, al diacono che proclama il Vangelo il popolo risponde: “E’ Dio che parla”. Ed è vero, perché Dio parla sempre. Con la sua stessa silenziosa presenza, il Logos parla sino alla fine del mondo (cfr Mt 28,20).

Nella celebrazione, la Parola diventa dunque un nuovo evento, fa esistere ciò che annuncia. E l’omelia ne evidenzia l’attualità come se fosse – sit venia verbis! – una ulteriore lettura; non un discorso su Dio, ma un messaggio che Dio qui e adesso invia al suo popolo.

La Parola è una grazia dinamica – divina eloquia cum legente crescunt, scriveva s. Gregorio Magno -, e l’omelia ne riattiva la perenne attualità in modo che “chi ascolta creda, credendo acquisti speranza, sperando ami” (s. Agostino).

Per tutti questi motivi, l’omelia eccelle fra tutte le forme di predicazione e, in un certo senso, le riassume come fonte e culmine.

 

L’esempio di Gesù

Sono due gli episodi evangelici che maggiormente illuminano la natura e le finalità dell’omelia.

Il primo (Luca 14, 16 ss.) presenta Gesù che nella sinagoga di Nazaret, attualizza un testo del profeta Isaia: “Oggi si è adempiuta questa Scrittura che voi avete udito” (v. 21). In quel momento e in quel luogo, egli era l’avveramento dell’antica profezia.

Il secondo episodio (Luca (4, 13 ss.) presenta Gesù che lungo la strada verso Emmaus attualizza le Scritture e nella locanda svela poi la propria identità: “Allora si aprirono i loro occhi e lo rico­nobbero” (v. 31).

In ambedue i casi, Gesù rende attuale la Scrittura e suscita la fede degli ascoltatori. Compie, potremmo dire, una perfetta omelia: “mette a fuoco” il messaggio dei testi ascoltati ed evidenzia la continuità della storia della salvezza, annunciata nell’Antico Testa­mento e realizzata nel Nuovo: due parti che l’imma­ginifico s. Agostino paragonava a due pietre focaie che, strofinate insieme, sprizzano scintille di fuoco e luce. Nell’Antico Testamento – aggiungeva – è adom­brato il Nuovo, e nel Nuovo si disvela l’Antico”.

L’omelia fa riferimento ai testi biblici per una loro riproduzione nella vita di chi partecipa al­l’azione liturgica e fa sperimentare, per la potenza dello Spirito Santo, la presenza del Signore che si affianca a ciascuno per riscaldare il cuore e illuminare la mente. Egli, infatti, è sempre presente nella sua parola. L’evento salvifico si attualizza nel momento in cui la Parola è proclamata; l’omelia ha il compito di esplicitarlo e facilitame la comprensione da parte dell’intera assemblea concelebrante.

Illuminare e riscaldare: i due verbi che quali­ficano l’omelia. Se illumina la mente, ma non ri­scalda il cuore è perché parla d’altro, non di lui; perché trasmette parole, non la Parola; perché è impregnata di sentimenti umani, non di Spirito Santo.
L’assemblea è dunque, secondo una bella espres­sione della Traditio apostolica (n. 35) il luogo ubi floret Spiritus.

Per la tradizione ebraica dove c’è un’assemblea di almeno dieci persone in ascolto della Torah, la shekinah (presenza di Dio), è in mezzo a loro. Per Gesù, come sappiamo, ne bastano due o tre! (Mt 18, 20).
Parola, celebrazione e assemblea: ecco i tre ineludibili riferimenti dell’omelia che deve pre­sentare una chiara unità tematica “in modo che i fedeli siano indotti a scoprire la presenza e l’efficacia della parola di Dio nell’oggi della propria vita” ha scritto Benedetto XVI.

 

Qualche conclusione

Ma se tutto questo è vero, poniamoci alcune domande:

  • perché il popolo di Dio deve così spesso subire scialbe letture della Parola, invece che ascoltare dignitose proclamazioni affidate a lettori adulti (e non a ragazzini), preparati (e non al primo che capita) e capaci di farla capire – per averla anzitutto essi stessi assimilata – anche attra­verso un’adeguata tecnica comunicativa che rispetti la dizione, l’articolazione delle parole, le pause, il fraseggio, gli stacchi ecc.?
  • quando accadrà di vedere lettori che si servano sempre e soltanto dei lezionari ufficiali e non di altri libri o, peggio ancora, di spiegazzati foglietti?
  • quanto tempo dovrà passare perché tutti si convincano che un approssimativo impianto di amplificazione trasforma le parole in fastidioso rumore e priva l’assemblea del sacrosanto diritto di capire ciò che Dio vuole comunicarle?
  • quando diverremo davvero consapevoli che nell’ascolto della parola di Dio si edifica e cresce la Chiesa, come al n. 7 scrive Ordo lectionum mis­sae?
  • e come non pensare che quell’ascolto, per qualcuno, potrebbe essere il primo e l’ultimo?

 

Vittorio Peri
Presidente dell’UAC

(Questo testo costituisce la parte introduttiva di un libretto – Omelia, non parole al vento – , recentemente pubblicato dalla editrice San Paolo e che sarà prossimamente fatto pervenire a tutti gli iscritti all’UAC.)